Cotone dell’Uzbekistan: danni ambientali e semi-schiavitù

Cambio Stile

Nel post precedente di questa rubrica abbiamo raccontato alcune delle conseguenze della monocoltura del cotone un India. Oggi ci spostiamo più verso occidente, in un altro paese con una grande tradizione nella coltivazione di questa pianta: l’Uzbekistan dove, con una produzione di quasi un milione tonnellate annue, il cotone rappresenta una delle voci più importanti dell’export del paese.
La pianta del cotone richiede molta acqua e per irrigare le piantagioni, agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, sono stati deviati i corsi di due grandi fiumi che alimentavano il lago d’Aral. Si trattava di uno dei più grandi laghi del mondo, con 68mila chilometri quadrati di estensione. Oggi praticamente non esiste più, mettendo fine all’economia della pesca di cui viveva gran parte delle popolazione locale.
La situazione per i lavoratori non è migliore. Ogni anno una parte rilevante della popolazione uzbeca, viene letteralmente costretta a recarsi nei campi per la raccolta del cotone, lavorando per settimana in condizioni difficili e pericolose. La paga di prassi è di 0,10 dollari al chilo: anche le persone più veloci nella raccolta guadagnano al massimo un dollaro al giorno. Anche in Uzbekistan, ovviamente, il ricorso al lavoro minorile è pratica diffusa nella coltivazione del cotone.
Buna parte del cotone raccolto in Uzbekistan finisce in Balgladesh, e qui si trasforma in tessuto e capi di abbigliamento destinati ai nostri negozi, spesso con le etichette di marche famose. “Chi ha fatto i miei vestiti?” era la domanda da cui sono partire le fondatrici del movimento Fashion Revolution, consapevoli che ognuno di noi può giocare un ruolo per cambiare la storia. Se vuoi farlo anche tu compila il modulo qui sotto…

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